Si può dire che l’elettronica sia nata con l’invenzione del triodo (Lee De Forest, 1906), ovvero del primo amplificatore. Infatti la prima esigenza che si incontra nell’elaborazione di un segnale è amplificarlo, tipicamente per adattare la tensione fornita da un sensore (dell’ordine dei microvolt o millivolt e a bassa potenza) ai livelli richiesti dai circuiti a valle. Nel corso del tempo la tecnologia si è evoluta passando dalle ingombranti “valvole termoioniche” ai transistor fino ai circuiti integrati. Gli amplificatori basati su componenti discreti avevano molte limitazioni, dovute alle non linearità dei dispositivi impiegati che richiedevano complesse reti di polarizzazione ed operazioni di “taratura”, che rendevano ogni progetto “unico” e di difficile realizzazione. Non esisteva, quindi, un componente o un circuito che facesse in maniera “semplice” quello che ci si aspettava: fornire un segnale in uscita proporzionale al segnale in ingresso indipendentemente dall’ampiezza o frequenza dello stesso! Adesso gli amplificatori operazionali risolvono tantissimi problemi.
L’amplificatore operazionale
Solo con l’avvento dei circuiti integrati, intorno agli ’60 del secolo scorso, è stato possibile realizzare il primo componente “reale” che si comporta quasi come uno “ideale”: l’amplificatore operazionale (detto anche Op Amp). Questo è fondamentalmente un amplificatore accoppiato in continua di guadagno molto elevato che usa reti esterne di reazione per controllare la sua risposta. La versatilità e le potenzialità di questo componente sono quindi racchiuse in queste due caratteristiche: elevato guadagno e retroazione. Ma perché? Dallo studio della retroazione sappiamo che un amplificatore di guadagno A se viene inserito in un anello di reazione di guadagno beta presenta un guadagno a ciclo chiuso pari a:
per cui se A x beta >>1 il guadagno G è approssimabile ad 1/beta (teoricamente se A è infinito allora G=1/beta) . Tipicamente per un operazionale A=106 o anche di più, quindi l’approssimazione è valida e questo rende possibile determinare il comportamento del circuito semplicemente progettando la rete di retroazione. Tuttavia vi sono delle sottigliezze da tenere presente per evitare di trovarsi nelle condizioni in cui non è possibile approssimare un guadagno elevato con uno infinito ed evitare sorprese! In questo articolo vedremo alcuni accorgimenti che ci consentono di utilizzare gli amplificatori operazionali come se fossero dei componenti ideali, e mostreremo soprattutto a quali conseguenze si può andare incontro se non si tiene conto delle approssimazioni che sono alla base di tutto.
Useremo il simulatore LTSpice per visualizzare quanto affermato, confrontando un circuito con un modello di Op Amp ideale ed uno con un Op Amp reale (OP492, della Analog Devices) presente nella libreria del programma. In figura 1 è mostrato lo schema utilizzato in questo articolo. A destra c’è il circuito con Op Amp ideale mentre a sinistra quello con OP492. Lasciando invariato il carico ed i segnali di ingresso vedremo cosa succede per differenti valori delle coppie di resistenze R1-R2, ed R3-R4.
Figura 1
Come vedremo in seguito, la tensione di uscita Vout, applicata alla resistenza Rload, è pari a:
per cui, scegliendo R2=R1 ci aspettiamo una tensione di uscita doppia di quella in ingresso. La prima cosa che notiamo in questa formula è che la tensione di uscita non dipende dalla resistenza di carico Rload, cioè l’Op Amp si comporta come un generatore di tensione ideale! Sappiamo che la tensione sotto carico di qualunque generatore di tensione è diversa da quella a vuoto perché dipende dal proprio dal carico in quanto la tensione effettivamente applicata è determinata dal partitore di tensione fra la resistenza di carico e la resistenza equivalente in serie al generatore ideale interno (teorema di Thevenin). Invece l’Op Amp ha la proprietà di un Op Amp di comportarsi come un generatore di tensione ideale, grazie ai suoi circuiti interni che riescono a rendere la tensione di uscita indipendente dal carico. In questo articolo ci concentreremo su quello che succede in ingresso all’Op Amp mostrando come la scelta dei resistori della rete di reazione (e solo quelli!) influenzano il risultato finale.
Il corto circuito virtuale
Per studiare l’ingresso del circuito, però, dobbiamo partire dall’uscita! Infatti la tensione Vout è limitata, visto che non può superare il valore di alimentazione, e quindi la tensione in ingresso, cioè la differenza fra le tensioni applicate ai morsetti + e – deve essere pari a Vout/A. Se A è infinito abbiamo che V+ =V- cioè la tensione in ingresso è nulla. Questo risultato si chiama “corto circuito virtuale”: corto circuito perché i due morsetti hanno la stessa tensione ma virtuale perché tra essi non circola corrente. Molti autori chiamano questa proprietà “massa virtuale” perché tipicamente, ma non sempre, il morsetto + è a massa. In realtà è una forzatura che potrebbe essere forviante nello studio di circuiti dove il morsetto + non è massa e di conseguenza la tensione V- non è zero (come in figura 1). Ribadendo che l’ingresso per l’operazionale è la tensione fra i morsetti + e – cioè la differenza fra le tensioni applicate ai singoli morsetti sia ha che l’amplificazione a ciclo aperto A si chiama anche “amplificazione differenziale”, che descrive la natura intrinseca dell’operazionale.
Ritornando al guadagno A, se non è infinito ma solo elevato, allora la tensione presente fra i due morsetti + e – non è nulla ma di valore piccolo. La domanda è: quanto piccolo? Cioè quando possiamo trascurare gli effetti di questa non idealità? Facciamo un semplice calcolo: se A=106 e la tensione di uscita è di 10 V allora, indicando con e la tensione fra i due morsetti abbiamo e=Vout/A=10/106 =10-5 cioè la tensione di ingresso è dell’ordine delle decine di uV. Quando questo valore è trascurabile? Dipende dall’applicazione! Normalmente le tensioni di ingresso sono dell’ordine dei mV, quindi mille volte superiori e praticamente possiamo applicare il principio del c.c. virtuale per la progettazione dei circuiti senza problemi. Se invece dobbiamo amplificare segnali provenienti da sensori che forniscono tensioni di qualche uV allora occorre selezionare accuratamente l’Op Amp scegliendone uno con guadagno di almeno 109. Affinché la formula di calcolo di Vout a partire da Vin sia valida, la corrente che entra negli ingressi + e –deve essere nulla: in questo modo la tensione V- è data dal partitore di tensione fra Vout (che come detto è assimilabile ad un generatore ideale di tensione) e massa ed è anche pari a V+ per il c.c. virtuale. Di conseguenza:
Invertendo la formula si ottiene Vout in funzione di Vin come in (1). Nei circuiti reali la corrente circolante negli ingressi + e – è diversa da zero ma al massimo dell’ordine qualche uA, valori sufficientemente bassi da poter essere trascurati se la corrente che circola nel partitore è almeno mille volte superiore e non abbiamo bisogno di una precisione troppo elevata. Cerchiamo di capire praticamente quando possiamo trascurare questa corrente: se la tensione di uscita è dell’ordine dei volt, per avere una corrente di qualche mA le resistenze devono essere di qualche kOhm.
Il segreto per progettare circuiti con amplificatori operazionali è quindi l’ordine di grandezza dei resistori esterni impiegati. Matematicamente il rapporto R2/R1 è sempre lo stesso sia che R2=10 kOhm e R1=5 kOhm, sia che R2=10 MOhm e R1=5 MOhm, ma nel secondo caso non possiamo più considerare valide le formule del partitore di tensione.
Simulazioni
Vediamo allora la simulazione di due differenti scenari con R2=R1= 3.3 kOhm e R2=R1= 3.3 MOhm. In entrambi i casi ci aspetteremmo un’uscita pari al doppio dell’ingresso. Applichiamo un ingresso sinusoidale di 5V di ampiezza di picco e frequenza 2 KHz e simuliamo per 1 ms in modo da visualizzare due periodi. In Figura 2 vediamo il risultato della simulazione con R2=R1= 3.3 kOhm: l’uscita dell’operazionale ideale si sovrappone con quella dell’operazione OP492 di esempio, come ci aspettiamo.
Figura 2
In Figura 3 vediamo il risultato della simulazione con R2=R1= 3.3 MOhm e possiamo verificare come l’uscita non sia quella desiderata ma sia significativamente inferiore.
Figura 3
Cosa succede per valori di resistenza dell’ohm merita un discorso a parte che sarà oggetto di un prossimo articolo.
Conclusioni
L’amplificatore operazionale consente di realizzare circuiti dalle prestazioni desiderate in modo relativamente semplice purché si rispettino la semplice condizione di utilizzare resistori con valori nell’ordine delle migliaia di ohm. Questa scelta garantisce il funzionamento del circuito perché rende trascurabili le correnti interne dell’Op Amp.